Prefazione. Storia della cioccolateria più antica di Sicilia
Pubblichiamo per intero la prefazione al libro (scritto da Giovanni Criscione) La dolceria Bonajuto. Storia della cioccolateria più antica di Sicilia a cura di Giuseppe Barone, professore ordinario di storia contemporanea presso l’Università degli Studi di Catania.
Se la storiografia ha consolidato nel tempo il giudizio sulla centralità geopolitica e mediterranea della Contea di Modica, studi più recenti hanno invece evidenziato, tra i caratteri originali del territorio, la ricca e variegata tradizione dolciaria, inedito contributo culturale e sociale di una raffinata civiltà “delle buone maniere”. Nei registri delle Lettere Patenti dell’archivio comitale sono presenti, sin dal Seicento, le franchigie a favore dei cosaruciari modicani e in particolare dei cubbaitari, che sulle orme degli antichi artigiani arabi manipolavano le materie prime locali per produrre il tipico torrone di miele con mandorle e giuggiulena da esibire nelle festività religiose. Nei libri di Cautele e nelle settecentesche Giuliane dei casati Grimaldi e De Leva compaiono spesso i turrunara, che con contratti di fornitura e note-spesa testimoniano l’alto livello dei consumi alimentari dell’aristocrazia modicana.
Grazia Dormiente ha potuto documentare sin dal 1746 la presenza del cicolateri Giuseppe Scivoletto, al servizio della baronessa Anna Grimaldi, e i volumi di Introiti ed Esiti del Collegio dei Gesuiti e del Monastero di San Benedetto confermano la pratica diffusa del bere e mangiare “dolce”. Non a caso, tra il XVII e XVIII secolo, dalle abili e svelte mani delle monache di clausura dei conventi modicani venivano confezionate le ghiotte empadillas (’mpanatigghi), di derivazione spagnola, dove al cioccolato e al pesto di mandorle, si aggiungeva la carne tritata, per realizzare un equilibrio perfetto di zuccheri e proteine, adatto a sostenere i faticosi viaggi per mare e per terra dei notabili locali.
La filiera del cioccolato modicano, oggi punta di diamante dell’economia iblea, ha dunque radici lunghe, che affondano nella società di una “piccola capitale” abituata nei secoli a coniugare l’autonomia delle sue istituzioni (la Contea) e l’originalità del sistema agrario (l’enfiteusi) con la cultura materiale “alta” dei ceti nobili e borghesi
La filiera del cioccolato modicano, oggi punta di diamante dell’economia iblea, ha dunque radici lunghe, che affondano nella società di una “piccola capitale” abituata nei secoli a coniugare l’autonomia delle sue istituzioni (la Contea) e l’originalità del sistema agrario (l’enfiteusi) con la cultura materiale “alta” dei ceti nobili e borghesi. La “pietrificazione” barocca del centro storico, il sapere tecnico dei mestieri conservato negli Statuti delle corporazioni artigiane e le elaborate pratiche culinarie ne sono testimonianza. Questo inesplorato universo di antropologia culturale schiude finalmente i suoi tesori di conoscenza per restituirci à parte entière la storia del nostro territorio. Con questa densa e approfondita ricerca sulle vicende familiari e imprenditoriali dei Bonajuto, Giovanni Criscione ci consegna un inedito scorcio di storia sociale della città tra Ottocento e Novecento, mettendo in luce sia la straordinaria varietà di competenze artigianali, sia lo spirito di impresa che ha caratterizzato la nascita e lo sviluppo del distretto del cioccolato modicano. Le tranches de vie di questi imprenditori schumpeteriani ante litteram smentiscono i luoghi comuni sull’arretratezza meridionale e sul deficit d’impresa nel Sud, nonostante sollevino non poche perplessità su una tesi largamente condivisa dagli economisti, la legge della terza generazione, secondo cui la prima crea ricchezza dal nulla, la seconda la conserva e la terza la scialacqua e la distrugge. La saga delle dinastie familiari borghesi, dall’ascesa economica dei padri fondatori fino allo sperpero degli ultimi eredi (si pensi al caso dei Florio in Sicilia), trova nel romanzo di Thomas Mann I Buddenbrook (1901) un modello letterario talmente calzante da trasformarsi in un resistente stereotipo culturale, la cui diffusione non resta certo circoscritta all’interno dei confini europei. Infatti già agli inizi del XX secolo, negli Stati Uniti circolava la battuta sarcastica (riportata dallo storico David Landes) sulle famiglie «che avevano iniziato in maniche di camicia e, nel corso di tre generazioni, si ritrovarono in maniche di camicia».
La storia plurigenerazionale dei Bonajuto presenta uno scenario nuovo e fascinoso, con biografie individuali e comportamenti collettivi che esaltano le potenzialità produttive del territorio e la coesione sociale della modernizzazione iblea
Per fortuna il compito degli studiosi non è quello di convalidare gli stereotipi, ma piuttosto quello di analizzare senza pregiudizi la realtà e aprire nuovi percorsi di ricerca. La storia plurigenerazionale dei Bonajuto presenta uno scenario nuovo e fascinoso, con biografie individuali e comportamenti collettivi che esaltano le potenzialità produttive del territorio e la coesione sociale della modernizzazione iblea. L’indagine archivistica di Criscione rintraccia l’origine del ceppo familiare nella figura del capomastro siracusano Natale Bonajuto, attivo nella Sicilia sud-orientale e artefice della rifondazione settecentesca di Caltagirone. Il figlio Vincenzo intraprende la carriera di notaio e si stabilisce a Modica, svolgendo mansioni amministrative negli uffici della Contea. Alla sua morte, il primogenito Francesco Ignazio avvia la dinastia dei dolciari inaugurando una sorbetteria in via del Collegio (l’attuale via Garibaldi) e successivamente sull’ampio ponte di San Pietro, autentico cuore politico e religioso della città, dove avevano sede anche il Circolo dei nobili, il monastero benedettino e i principali negozi e “aromaterie”.
Alla sua morte, il primogenito Francesco Ignazio avvia la dinastia dei dolciari
All’inizio, la mobilità sociale della famiglia appare discendente: Francesco Ignazio non eredita la professione paterna, sposa in prime nozze la figlia di un modesto agrimensore e in seconde nozze la figlia di un falegname, e infine avvia un’attività artigianale di caffettiere-gelatiere che lo colloca nel segmento inferiore della scala sociale. Tuttavia, nell’Ottocento borbonico, l’impianto dei carrubeti e dei vigneti alimenta di nuova linfa i circuiti dell’economia locale, e lo sviluppo mercantile stimola la crescita dei consumi alimentari della popolazione. Il commercio della neve registra così una congiuntura positiva, favorendo i lauti profitti di piccoli e medi imprenditori che, dopo la liberalizzazione delle gabelle, sostituiscono nella gestione delle neviere e nell’appalto comunale dell’industria del freddo le famiglie nobiliari, come gli Alliata e i Villafranca. I Bonajuto diventano i principali appaltatori della neve, controllando di fatto l’intera filiera produttiva, dalle neviere dei monti Iblei alla distribuzione del ghiaccio in città. Richiesta da sorbettieri e aromatari, la neve, oltre alle note proprietà terapeutiche anti-infiammatorie, aiuta a conservare gli alimenti e a rinfrescare le bevande. Quando l’anziano Francesco Ignazio cede le redini dell’azienda al figlio Federico, il monopolio del freddo sembra appartenere saldamente a un coeso gruppo familiare che, attraverso relazioni di parentela e di patronage con i ceti dominanti, si assicura un volume costante di affari e di profitti. Paradossalmente, con l’Unità d’Italia i Bonajuto entrano in crisi. Criscione mette in evidenza, da un lato, come l’esteso contrabbando e l’abusiva introduzione della neve nella cinta daziaria abbiano fortemente danneggiato il bilancio aziendale; dall’altro, come il cambio di regime dalla monarchia borbonica a quella sabauda abbia fatto saltare equilibri e alleanze politiche a vantaggio di una nuova leva, quella dei mercanti e dei dolcieri, pronti a rivendicare un loro presunto primato nel patriottismo risorgimentale di contro al “borbonismo” della ditta Bonajuto. Il 12 giugno 1860, l’abate De Leva, presidente del Comitato rivoluzionario di Modica, è costretto ad annullare l’appalto della neve già assegnato a don Federico per attribuirlo ai suoi rancorosi rivali. La sconfitta politica, ciò nonostante, si trasforma in successo economico: lo stesso Federico e il figlio Francesco decidono di mollare la filiera del freddo e di puntare sulla produzione dolciaria, con un’attenzione particolare al cioccolato e ai suoi molteplici impieghi nell’industria alimentare e farmaceutica.
L’apertura delle nuove “cioccolaterie” non coglie impreparato don Federico, che sin dal 1853 ha attrezzato il suo laboratorio artigianale con un moderno frantoio per frantumare le fave di cacao e ottenere la pasta amara
Toccasana per ogni genere di malattia, espettorante per il catarro, energizzante per gli sposi novelli, cosmetico per ammorbidire la pelle, bevanda “di magro” di frati e monache durante il digiuno quaresimale, il cioccolato trionfa nella società del secondo Ottocento, grazie anche ai progressi della lavorazione meccanica della “pasta amara” e allo sviluppo dell’industria alimentare. La comparsa sul mercato di un prodotto più raffinato e a costi minori (il gianduia entra in scena nel 1852, il cioccolato al latte nel 1867, il fondente nel 1879) rende accessibile a una sempre più larga cerchia di consumatori l’antico “cibo degli dèi” azteco. L’apertura delle nuove “cioccolaterie” non coglie impreparato don Federico, che sin dal 1853 ha attrezzato il suo laboratorio artigianale con un moderno frantoio per frantumare le fave di cacao e ottenere la pasta amara. Alla sua morte (1899) le fortune della ditta non dipendono più dalla bianca neve, ma dal nero cioccolato
Le redini dell’impresa familiare passano ora al giovane Francesco, del quale Giovanni Criscione traccia con partecipata cura la straordinaria biografia umana, imprenditoriale e politica. Dopo aver fondato nel 1880 il Caffè Roma con un attrezzato laboratorio dolciario, il giovane Francesco si tuffa nell’agone politico, aderendo al neonato Partito Socialista al seguito del “barone rosso” Saverio Polara, del barbiere Francesco Belgiorno e di tanti altri esponenti della democrazia radicale che vivono da protagonisti l’esperienza dei Fasci Siciliani (1892-1893) e dell’organizzazione politica e sindacale dell’età giolittiana. Quando nel 1902 l’alluvione distrugge Modica bassa e la piena travolge arredi e macchinari della dolceria, Francesco imbraccia vanga e badile insieme a centinaia di volontari, per liberare dal fango il centro storico e cooperare alla rinascita della città. Criscione, con rapide pennellate di tersa scrittura, illumina la breve ma intensa stagione della belle époque modicana, caratterizzata dai salotti nobiliari, dalle compagnie melodrammatiche di scena al teatro Garibaldi e dai turgidi pasticcini alla crema del Caffè Roma, dove cedrata, aranciata, cobaita, cotognata e torrone fanno bella mostra di sé nelle lucide vetrinette accanto a mustazzola, nucatuli e canditi, in serrata concorrenza con la simile produzione delle altre dolcerie che si snodano in elegante sequenza lungo l’antica via del Salone. I Borrometi del Caffè Orientale, i Civello, i Di Martino e i La Bianca, agli inizi del XX secolo, qualificano con la loro presenza l’alto livello dell’industria dolciaria, che colloca l’ex capitale della Contea ai vertici della produzione regionale.
La golden share di Francesco Bonajuto è però costituita dalle barrette di cioccolato, che nel 1911 gli valgono la medaglia d’oro all’Esposizione internazionale di Roma
La golden share di Francesco Bonajuto è però costituita dalle barrette di cioccolato, che nel 1911 gli valgono la medaglia d’oro all’Esposizione internazionale di Roma. Un riconoscimento così ambito, che premia l’elevato standard artigianale e la qualità della lavorazione del cacao, giunge tuttavia a ridosso degli eventi drammatici della “grande guerra” e della crisi economica del 1919-22. Don Francesco partecipa alle lotte politiche, e il Caffè Roma ritorna a essere il punto d’incontro dei socialisti modicani e della loro radicale utopia di palingenesi sociale. Tuttavia, il massimalismo dottrinario del Partito Socialista impedisce la collaborazione con il Partito Popolare di Sturzo, favorendo la revanche dello squadrismo fascista. Le speranze del “biennio rosso” si tramutano nelle violenze del “biennio nero”, che costringono l’anziano dolciere a chiudere la parentesi dell’impegno politico. Schedato dalla polizia come “sovversivo”, Francesco fronteggia con enormi sacrifici le conseguenze della “grande crisi” e il blocco delle importazioni di cacao, lasciando alla sua morte, nel 1932, una pesante situazione debitoria. Grazie alle fatiche impareggiabili della figlia adottiva Rosa Roccaro e del suo fidanzato Carmelo Ruta, la vedova Carmela Di Martino riesce a risanare questa condizione.
Quando negli anni Sessanta con la chiassosa cordata di matricole universitarie e compagni di liceo consumavo la “mezza granita” di cioccolato con panino, discutendo di Marx, di Marcuse e di improbabili rivoluzioni
Le pagine che Giovanni Criscione dedica a questa particolare transizione generazionale sono insieme delicate e intense, ricche di suggestioni affettive per questa giovane e umile coppia: lei creduta orfana di guerra e lui modesto lavorante di don Ciccio. Con lavoro sagace e nel solco di una lezione artigianale d’eccellenza, Carmelo e Rosa rimettono in sesto le sorti dell’impresa e ne rilanciano il blasonato marchio negli anni “eroici” della ricostruzione e della rinascita democratica dell’Italia repubblicana. La corpulenta gentilezza di don Carmelo Ruta e la burbera bonomia di donna Carmela Di Martino sono ricordi incancellabili della mia gioventù, quando negli anni Sessanta con la chiassosa cordata di matricole universitarie e compagni di liceo consumavo la “mezza granita” di cioccolato con panino, discutendo di Marx, di Marcuse e di improbabili rivoluzioni. Nei sabati d’inverno, rincantucciati nella saletta interna affumicata dalle “nazionali” dei vecchi socialisti, si celebravano interminabili diatribe ideologiche mitigate dalle tazze fumanti di calda cioccolata. Il mitico Caffè Roma perpetuava così la sua vocazione “socialista”, contrapponendosi idealmente al contiguo caffè del Circolo Unione, riservato all’élite moderata della città. Eppure, più che nelle astratte querelle tra destra e sinistra, una vita intensa e laboriosa pulsava nel piccolo e affollato retrobottega della dolceria, dove l’esperto don Carmelo Ruta ammaestrava i futuri talenti della pasticceria modicana, tra i quali Giovanni Bonomo, Salvatore Di Lorenzo e Giovannino Cicciarella.
Attraverso sei generazioni di protagonisti, l’Antica Dolceria Bonajuto ha fondato il distretto del cioccolato, eccezionale riserva del turismo culturale e gastronomico
Il restyling dell’azienda familiare e la riapertura nel 1992 con la denominazione dell’Antica Dolceria Bonajuto vedono impegnati Franco Ruta e il giovane Pierpaolo in un originale progetto industriale d’innovazione nella tradizione, di creative contaminazioni di essenze e di sapori, di solidali obiettivi di impresa etica e di efficaci strategie di marketing. Attraverso sei generazioni di protagonisti, l’Antica Dolceria Bonajuto ha fondato il distretto del cioccolato, eccezionale riserva del turismo culturale e gastronomico, esprimendo al meglio la memoria e il futuro di una Sicilia diversa, colta e laboriosa, che indica la strada verso un modello di sviluppo legato alle vocazioni del territorio.
Dal 2018 la denominazione “Cioccolato di Modica” è esclusivamente riservata al prodotto IGP, Antica Dolceria Bonajuto dopo attenta riflessione ha deciso di non aderire al regime di controlli pertanto il cioccolato da noi prodotto non può più essere definito “di Modica”, per approfondimenti clicca qui.
È possibile acquistare La dolceria Bonajuto. Storia della cioccolateria più antica d’Italia in Dolceria a Modica e nel nostro negozio online.
Clicca qui per visualizzare l’indice dei capitoli